VIII

LA CRISI DEL SISTEMA DELLA NATURA

Ed è proprio nello Zibaldone di questi mesi (soprattutto dall’agosto al novembre del 1823 quando il discorso si fa piú serrato e folto sull’abbrivo di alcuni pensieri importanti, ma piú sporadici dei mesi seguenti al ritorno a Recanati e prima di un certo diradamento dei pensieri dello Zibaldone di fronte alla preparazione e all’inizio delle Operette morali) che il pensiero leopardiano si apre ad uno sviluppo critico importantissimo ed essenziale per capire anche le posizioni di partenza delle Operette e gli apporti genuini del loro svolgimento su quelle coerentemente appoggiati, anche se capaci – come vedremo – di cogliere conclusioni ancor tanto piú decisive nel pieno dell’esperienza intera del pensatore-moralista-scrittore, del rivelatore coraggioso della reale situazione e condizione umana in se stesso e di fronte alla natura e ai sistemi provvidenzialistici e ottimistici.

Proprio in quei mesi vengono rafforzandosi (tanto piú correggendo la errata eventuale impressione di una pura evasione platonico-mistica della canzone Alla sua donna), in un intreccio lucido e folto e in una sperimentazione instancabile e fermentante di feconde contraddizioni, nella sua volontà di esaurienza, le spinte del sensismo-materialismo (sempre meglio configurato nell’apertura a un vero e proprio materialismo conseguente e deciso) e l’affacciarsi di una nozione della ragione come strumento negativo e demistificante dei sistemi positivi e chimerici della stessa ragione, nonché la spinta di nichilismo che investe la natura e giunge alle forme di un nichilismo esistenzialistico profondo e ricco di modernissime anticipazioni.

Mentre il Leopardi continua la battaglia contro ogni residuo metafisico e trascendente, ogni ipotesi di «idee innate», ogni idea di «assoluto» impossibile nell’uomo e nella sua formazione sensistica e materialistica, egli viene affacciando prima l’idea di una ragione debole e falsa nella costruzione di sistemi artificiosi (veri e propri «poemi della ragione» privi di ogni validità e attendibilità) e positiva solo nello «spogliarsi degli errori» e «nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile), appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento»[1] – in una forma ancora assai vicina alla vecchia antitesi ragione-natura – e poi, con maggiore novità, quella dell’intelletto umano grande e nobile nella sua capacità di comprendere la piccolezza dell’uomo quasi confondendosi «col nulla» nella considerazione di se stesso, «infinitissima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo»[2]. Cosí la forza dell’uomo è soprattutto quella di riconoscere la sua condizione di miseria e di piccolezza e solo per tal via egli potrà – libero da superbe credenze – tentare (come il Leopardi farà direttamente nel periodo piú tardo della sua ultima esperienza) di costruire una sua civiltà disillusa e faticosa, rafforzata dalla lotta contro la natura. D’altra parte, sempre teso al bisogno della felicità come «bisogno» fondamentale dell’uomo, il Leopardi viene sviluppando, su tale filone essenziale del suo pensiero, una definitiva critica ad ogni felicità «non adatta» alle esigenze umane (donde lo scarto definitivo delle «speranze che dà all’uomo il cristianesimo» mentre l’uomo vuole «la felicità umana, terrena, in questa vita mortale», sí che lo stesso «infinito» a cui tende il nostro spirito «è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiú, altro che confusamente nella immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio e appetito de’ viventi»[3]) e in tal direzione finisce per aggredire le «meraviglie del creato» come non corrispondenti alla felicità umana, facendo spuntare quell’interrogativo «a che serve?» che sarà, con tanto diversa forza e coerenza, la domanda suprema del Dialogo della Natura e di un Islandese.

Cosí l’uomo è in realtà sempre in «stato di desiderio», quindi «in stato di pena»[4], preso com’è fra il bisogno e desiderio della felicità e l’impossibilità di realizzarli, anche perché la stessa società presente (storicamente definita, ma disposta a configurarsi come condizione perenne dell’uomo) è fonte di dolore e di limitazione dei desideri del singolo, rigettato cosí in un individualismo esasperato e doloroso che tocca quasi i limiti di un totale anarchismo[5] e che non si salva neppure saldamente nella condizione primordiale dello stato naturale se – come si dice in un pensiero-saggio del 25-30 ottobre – «dell’uomo in natura noi pochissimo conosciamo»[6] e quel magnificato stato naturale appare solamente un’ipotesi vaga, non piú un oggetto di sicura persuasione e un fondamento certo del vecchio sistema della natura e delle illusioni sempre piú in crisi e ormai insidiato da ogni parte. Ché anche il processo del crescente materialismo leopardiano finisce per attaccare la stessa natura datrice di vita-vitalità se il Leopardi approfondisce la sua teoria dell’assuefazione e conformabilità materiale dell’uomo (circostanze ambientali e persino climatiche che limitano la stessa nozione di ingegno e di genio), cercando sí di salvare ancora la natura in quanto il condizionamento dell’uomo è costituito da una «seconda natura» dovuta appunto alle circostanze e all’assuefazione e tale da «infelicitarlo» (mentre la natura «prima» lo avrebbe fatto felice), ma finendo per far risalire la responsabilità stessa di quella «seconda natura» alla natura tout court. Ad essa infatti risale il germe della disposizione alla assuefazione, alla conformabilità, e se questo può apparire al Leopardi il suo unico errore (un germe di «imperfezionamento» che non gli appare senz’altro necessariamente causa della infelicità umana), in realtà – nel suo pensiero tormentoso e tormentato – quel germe era pur dovuto alla natura e – seppure in forma indiretta e ipotetica – la natura risultava responsabile di quella radice di infelicità e di condizionamento che insieme veniva a limitare fortemente le forze volontaristiche dell’uomo su cui tanto il Leopardi aveva insistito dalla canzone All’Italia a quella a Paolina e al vincitore nel pallone. Del resto è chiaro – come ha ben fatto vedere il Luporini in una delle parti piú impegnative del suo saggio già ricordato[7] – che dal culmine (in novembre) di questa fase dello Zibaldone emerge una svolta fondamentale della prospettiva leopardiana.

Proprio nell’affannosa ricerca di giustificare ancora il suo sistema della natura approfondendo la realtà di questa, il Leopardi a un certo punto s’accorge che la natura non dà la vita (vitalità), ma solo l’esistenza, che le contraddizioni materiali e teoretiche insite nella nozione di natura lo conducono inevitabilmente a capovolgere la vecchia antitesi natura (vitalità, generose illusioni, eroismo, integralità umana ecc.) – ragione (aridità, egoismo, astrattezza, snaturamento e infelicità) in una nuova e crescente antitesi fra natura e uomo. Il «vitalismo» iniziale si dissolve, la natura è ostile alla vita e dà all’uomo solo l’esistenza con la sua «noia» e il suo «nulla». «La natura non è vita, ma esistenza e a questa tende, non a quella»[8].

Cosí la natura (pur mantenendo sempre una fortissima attrazione per il Leopardi in quanto senso di schiettezza e di autenticità[9]) viene demistificata e rivelata nella sua indifferenza-ostilità verso l’uomo e questo rimane solo con quella ragione che, per quanto limitata e tutt’altro che trionfante e creatrice di sistemi, tale demistificazione ha compiuto.

Su questo margine terribile e angoscioso in cui il Leopardi tocca i limiti del nichilismo esistenzialistico, lo stesso crescente materialismo e lo stesso razionalismo materialistico, che hanno provocato la crisi del sistema della natura, vengono a chiudere una possibile caduta del Leopardi nell’evasione mistica e nella voluttà del nulla (il religioso amante del «nulla» secondo la celebre formula del Vossler) e lo sospingono fuori altresí di ogni vera via dialettica che lo avrebbe portato ad altro, ma avrebbe – in questa storia dei «se» e dei condizionali – smussato la forza terribile della sua protesta contro la realtà sbagliata, del suo no disperato che tanto ha inciso nella storia della problematica della crisi romantica e tanto ha fruttato nella poesia[10] verso lo scavo pessimistico e contestatario delle Operette morali, raccordando la sua ricerca al materialismo illuministico nelle sue forme estreme, proiettate entro l’Ottocento e al nuovo livello di problemi del nuovo spiritualismo e delle ideologie della Restaurazione.

Intorno a questo filone decisivo di pensieri filosofici lo Zibaldone della seconda parte del ’23 annoda una massa ingente di filoni di pensiero linguistico ed estetico che, mentre per una parte guidava alla migliore comprensione della problematica dello scrittore che si accingeva alle Operette morali, dall’altra mostra l’organicità duttile e salda del suo pensiero-esperienza che rende assai dubbie, se non illecite, operazioni troppo settoriali sul linguista, sul pensatore di estetica, sul pensatore-moralista.

Basti ricordare come nella pressione centrale di questo periodo (il condizionamento, il peso delle circostanze ambientali-storiche e sin fisiche e climatiche) si incontrino molte radici dei singoli filoni. Cosí avviene per i pensieri-saggi sulla poesia, in cui colpisce, in forme di storicismo relativistico e materialistico, il continuo riferimento della poesia, poniamo, di Omero alle condizioni della mentalità e dei modelli comportamentali del suo tempo. Cosí avviene per la lingua, riconnessa continuamente alle condizioni storiche e nazionali (il caso della lingua e letteratura della Spagna e dell’Italia nel loro rapporto con la decadenza politica e nazionale di quei due popoli) sino all’affermazione che «la lingua perfetta è la piú viva, la piú fedele, la piú totale immagine e storia del carattere della nazione che la parla; e quanto piú ella è perfetta tanto piú esattamente e compiutamente rappresenta il carattere nazionale»[11].

E l’autentico interesse linguistico – a cui si lega la destinazione di un ingente materiale preparatorio al progetto di un vero e proprio trattato, il Parallelo delle cinque lingue, che si proponeva di dimostrare l’originaria unità di tutte le lingue, attraverso un acutissimo lavoro etimologico: e val dunque ad avvalorare, come sul piano filologico, che nel periodo romano aveva avuto un forte rilancio, la complessità delle forze e degli interessi intellettuali e scientifico-culturali della personalità leopardiana – mai si scompagna dalle preoccupazioni dello scrittore e dell’intellettuale che intendeva rispondere ai problemi suoi e del suo tempo nell’esigenza di uno strumento linguistico moderno, originale, appoggiato originalmente alle forze della tradizione letteraria della lingua italiana e disposto ad esprimere le piú moderne ed autentiche istanze filosofiche-culturali-poetiche.

Donde l’approfondimento della polemica anticruscante da tempo avviata e sviluppata – sulla base di un’intransigente diagnosi della «stagnazione della lingua»[12] che coinvolge la letteratura italiana non piú originale – nel confronto tra la situazione degli scrittori francesi, inglesi e tedeschi che si avvalgono di una «lingua nazionale moderna, già formata, stabilita e perfetta»[13], affiatata con la filosofia moderna (che «regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna»[14]) e quella dello scrittore italiano preso drammaticamente fra l’arretratezza della lingua e letteratura nazionale e il proprio «invaghimento delle novità» delle moderne letterature e della moderna filosofia, e cosí costretto o ad usare uno strumento linguistico insufficiente o ad accettare, per dire cose moderne, la lingua altrui. Scartata cosí la via pedantesca dello stretto purismo e quella dei francesizzanti (sulla via ammodernata della vecchia polemica settecentesca), il Leopardi si proponeva e proponeva un ammodernamento della lingua antica («ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma colma d’ogni sorta di pregi») arduo e faticoso quanto il possesso della «scienza», della «sapienza» dello «studio dell’uomo» necessario «oggidí quasi generalmente ad ogni uomo di lettere, ma ch’è sommamente necessaria al filosofo». Tutto converge nell’impegno culturale, linguistico, stilistico del vero e moderno scrittore (lo scrittore, in concreto, che si accingeva, ripeto, alla stesura delle Operette morali) di cui il Leopardi metteva in risalto l’esigenza di una vera e propria «scienza del bello scrivere» come una «filosofia, e profondissima e sottilissima» che «tiene a tutti i rami della sapienza» e che egli estrinsecava in un celeberrimo passo dello Zibaldone sull’«immensa fatica» della conquista di un «buono stile».

Chiunque si è veramente formato un buono stile sa che immensa fatica gli è costato l’acquisto di quest’abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò, quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e finalmente l’arte di mettere in opra esso stesso quello che non senza molte difficoltà è giunto a riconoscere e sentire ne’ grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare, e che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensí la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza l’arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi, come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo si richiede un’arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l’uomo, e tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si assoggettino a questi studi, esercizi, e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro assolutamente il tempo necessario per un’arte che domanda piú tempo d’ogni altra? Oltre di ciò i piú perfetti possessori di quest’arte, dopo le lunghissime fatiche spese per acquistarla, non sono mai padroni di metterli in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro faticosissimo e lunghissimo, perché certo neppure i grandi maestri scrivono bene senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l’arte di bene scrivere?[15]

Ma – si noti bene – in questa prospettiva del supremo impegno stilistico che in un pensiero del 19 giugno sul limitato apprezzamento di un vero scrittore, sia attraverso le traduzioni sia nella lettura di lettori inesperti, esalta al massimo i «pregi» dello stile («Togliete i pregi dello stile anche ad una opera che voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne potete piú fare»[16]), il Leopardi nettamente blocca ogni caduta nel formalismo (nella sua battaglia su due fronti: contro il contenutismo volgare-romantico e contro il formalismo volgare-classicistico) quando nel pensiero del 9 settembre sostiene l’idea che lo stile stesso non vale se non nasce dalla vita e novità «de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti»: «Molti presenti italiani che ripongono tutto il pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppur concepiscono, la novità de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti; e non avendo né pensieri, né immagini, né sentimenti, tuttavia per riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici: questi tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo negherebbero schiettamente o implicitamente; ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può né possedere un buono stile poetico, né tenerne l’arte, né eseguirlo, né giudicarlo nelle opere proprie né nelle altrui; che l’arte e la facoltà e l’uso dell’immaginazione e dell’invenzione è tanto indispensabile allo stile poetico, quanto e forse ancor piú ch’al ritrovamento, alla scelta, e alla disposizione della materia, alle sentenze e a tutte l’altre parti della poesia ec. Onde non possa mai esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, né possa aver mai uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudine di sentimento di pensiero di fantasia, d’invenzione, insomma d’originalità nello scrivere»[17].

E proprio sulla poesia, in questa eccezionale fase di pensiero specifico e organico in sviluppo (preparazione di un’eccezionale fase creativa), lo Zibaldone si apre a veri e propri saggi di enorme valore (già ne ho usufruito in parte nelle pagine iniziali di questa introduzione) per comprendere il fondo energetico e «impuro», sensistico, anticatartico e «antiidillico» della sua grande poesia e per capire la complessa tensione artistica da cui nascono le Operette morali.

Si può anzitutto ricordare il lungo saggio comparativo fra l’Iliade e la Gerusalemme liberata che mostra anche le notevoli qualità d’intervento del Leopardi su un problema critico di fondo. Omero nell’Iliade, su cui insiste particolarmente il Leopardi – che qui, sulla base di un acuto relativismo storico, riconduce i fatti artistici a condizioni di civiltà, di circostanze e di mentalità diverse, e tiene conto molto all’intento, alla direzione intenzionale del poeta – ha perseguito un intento legato alla sua posizione storica e personale, cioè da una parte l’idea contemporanea dell’eroe vittorioso e fortunato, Achille, l’eroe della lingua e della civiltà greca, e dall’altra l’aggiunta personale della compassione, nell’autore e nel lettore, per l’eroe straniero e vinto, Ettore, pervenendo cosí ad un’unità per contrasto, che è la molla stessa della poesia; una unità piú ricca e poetica di quella che i cinquecentisti vi ricercavano, in base alle regole pseudoaristoteliche, nell’azione predominante di un solo personaggio.

In proposito è da citare questo passo: Omero desta «quel vivo contrasto di passioni e di sentimenti, quella mescolanza di dolore e di gioia e d’altri similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e agli altri, e ne moltiplica le forze, e cagiona nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma»[18].

Ancora in questo saggio, e poi nel pensiero sui drammi «a lieto fine», che secondo lui sarebbero contraddittorii, perché con il lieto fine spengono la tensione e la drammaticità ritrovabile in un dramma tutto tragico, il Leopardi dice sull’effetto della poesia: «L’effetto poetico si è che un dramma cosí formato [cioè un dramma interamente tragico] lascia nel cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll’animo agitato e commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi spento a furia d’acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma, produce un effetto grande e forte, un’impressione e una passion viva, né la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e l’effetto è durevole e saldo. Or che altro si richiede al totale di una poesia, poeticamente parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole?... una poesia che lascia gli affetti de’ lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta né commozione alcuna? e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, cosí o cosí, ma sempre commuover gli affetti?»[19].

Il Leopardi insiste dunque sul fatto che l’effetto della poesia in genere è un effetto energetico, la poesia non rasserena né calma l’anima, ma viceversa la muove in profondo.

Qui egli era ormai lontano dalle sue idee precedenti sulla poesia direttamente pragmatica, cioè che spinge direttamente all’azione o a certe azioni: è giunto ad un’idea piú profonda quando dice che la poesia agita l’animo del lettore proprio nelle sue scaturigini piú interne, lo muove a qualcosa di piú profondo che può essere ansia indiscriminata di nuova poesia e di azione. Sono pensieri molto piú importanti e che senza dubbio portano insieme assai lontano da un tipo di poesia «pura» o di lirica «pura»: e gli stessi pensieri piú tardi del ’27 e ’28 sulla lirica, sulla Divina Commedia come lunga lirica, che potrebbero sembrare pertinenti quasi ad un precorrimento di certe nozioni della lirica in senso catartico e «puro», sono da vedere anche in rapporto a questi precedenti pensieri, che li caricano di un senso della poesia tutt’altro che placatore delle passioni dell’animo.

E in un pensiero di poco piú tardo e riferito in questo caso alle arti figurative, in contrasto con una affermazione di Madame de Staël[20] il Leopardi insiste sul fatto che, anche a parità di perfezione, ha un effetto molto piú intenso, artistico e poetico, una statua che abbia in sé qualcosa di piú mosso, quasi di tormentato che non una statua che riposa in perfetta calma. Dove si può notare il solito distacco del Leopardi dalle affermazioni piú generali di tipo neoclassico – la nobile calma ecc. – a cui molto spesso anche scrittori romantici come la Staël, quando si occupavano di arti figurative, sostanzialmente aderivano.

Va qui ricordato anche un pensiero assai suggestivo e molto profondo sul coro delle tragedie greche, che tra l’altro può condurre a capire meglio la funzione del Coro dei morti che si trova nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Il Leopardi afferma che i tragici greci usavano il coro come una delle parti piú suggestive dei loro componimenti, perché attraverso il coro esprimevano una specie di voce anonima e collettiva e perciò in qualche modo tanto piú profondamente poetica, dato che l’individuo singolo è sempre piú limitato e in qualche modo trascurabile che non appunto questa specie di coscienza corale, che pur fatta di tanti singoli uomini (ognuno di per sé misero e disprezzabile) nella sua coralità attinge come ad una coscienza piú profonda e piú «vaga», suggestiva, profonda, capace di esprimere verità essenziali alla generale condizione umana: «questo attore ignoto, innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde e sublimi riflessioni sugli avvenimenti ch’erano passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie dell’umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta dell’innocenza e della virtú, la sola vendetta che sia loro concessa in questo mondo, cioè l’esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle medesime»[21].

La posizione che scaturisce da questi pensieri (in parte già ricordati all’inizio di questo saggio) – in cui il Leopardi non accetta la via piú consueta della poesia come serenità, come purificazione, come catarsi, ma postula nella natura e negli effetti della poesia qualcosa di piú intenso e di piú complesso e tale da provocare sempre ulteriore vita poetica e non solo poetica – trova delle analogie (e non certo delle concordanze e tanto meno delle derivazioni evidentemente, perché, semmai, per certe piú storiche derivazioni, bisognerebbe rifarsi a certe estetiche e poetiche settecentesche fra Gravina e Conti o a certi aspetti del sensismo del Beccaria e del Verri) con il grande Hölderlin per il quale «la poesia è quella in cui tutte le forze sono in movimento» (si ricordi quel «gorgogliamento» di cui parlava il Leopardi nel pensiero citato sull’Iliade).

Infine si ricordi la novità del ritorno del Leopardi sul rapporto tra filosofia e poesia. Già nello stesso Zibaldone precedente alle canzoni del ’21-22 si poteva osservare un certo passaggio del Leopardi da una tesi piú pertinente al suo sistema della natura (inimicizia e assoluta inconciliabilità della natura con la ragione, della filosofia con la fantasia[22]) a quel singolare pensiero[23] in cui egli stabiliva che si può essere sommo filosofo anche poetando profondamente. Ma in quella fase un simile pensiero assumeva soltanto il valore di una formidabile eccezione alla regola. Ora, in questa fase successiva del ’23 e nella prospettiva che conduce alle Operette morali, si trovano alcuni pensieri in cui il Leopardi ritorna su questo tema e insiste sul fatto che tra le due attività, filosofia e poesia, c’è singolare affinità, non piú assoluta diversità e inimicizia, ché anzi egli dice che esse sono «le facoltà le piú affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione». «La poesia e la filosofia», dice ancora «sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le piú nobili e le piú difficili facoltà, a cui possa applicarsi l’ingegno umano»[24].

È un avvicinamento assai significativo: il Leopardi non accetta né la via del primato della filosofia, né quello del primato della poesia, le vede come sullo stesso piano, come la sommità delle attività umane, come le facoltà piú affini tra loro. E un simile pensiero non può non comportare anche delle naturali implicazioni nei confronti delle intenzioni leopardiane rispetto alle Operette morali, un’opera in cui egli tendeva a far vivere il piú possibile insieme queste due «somme» attività dello spirito umano[25].


1 Cfr. il pensiero dello Zibaldone del 21 maggio 1823 (Tutte le op. cit., II, p. 688).

2 Come è detto nel pensiero del 12 agosto 1823 (Tutte le op. cit., II, pp. 793-794).

3 Cfr. il pensiero del 23 settembre 1823 (Tutte le op. cit., II, pp. 872-876), che è da mettere in relazione à rebours con la poesia L’infinito e, sincronicamente, con la canzone Alla sua donna. Si veda anche sempre sulle speranze ultraterrene cristiane e sulla svalutazione cristiana dei beni terreni il pensiero del 18 novembre (ivi, p. 984).

4 Cfr. il pensiero del 10 luglio (Tutte le op. cit., II, pp. 740-741): «Le cose ch’esistono non sono certamente per se né piccole né vili: né anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventú, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benché grandi, e forse talora piú grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo né il fanciullo non ne è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E cosí le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo (10 luglio 1823). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Cosí elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benché a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poiché non ci porta in niun modo mai alla felicità? Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire né conoscere o sufficientemente immaginare né i limiti, né le ragioni, né le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benché né l’esistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza cosí nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo né potremo mai vedere nemmeno i limiti? né arrivar mai ad intendere né anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell’esistenza della piú parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch’esistono. Pochissimi de’ quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell’esistenza che noi non conosciamo, né intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo (10 luglio 1823)».

5 Si veda almeno il subito dopo ricordato pensiero-saggio sulle società «larghe» e «strette» (Zibaldone, 25-30 ottobre 1823, in Tutte le op. cit., II, pp. 943-956) con al centro l’affermazione dell’odio del vivente per i suoi simili e della particolare natura antisociale dell’uomo.

6 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 953.

7 Si vedano soprattutto le pagine 244-254 del Leopardi progressivo in Filosofi vecchi e nuovi cit. In quel saggio il Luporini ha risolutamente scartato la tentazione di un’interpretazione esistenzialistico-religiosa del Leopardi quale risultava dal suo breve saggio del ’38, Il pensiero di Leopardi (Livorno 1938), a cui io perciò replicavo in una pagina della mia Nuova poetica leopardiana (4ª ed., 1971, p. 167) che appariva in pubblico (sulla base del mio precedente scritto del ’35 già citato) proprio contemporaneamente al nuovo fondamentale saggio luporiniano.

8 Zibaldone, 29 novembre 1823 (Tutte le op. cit., II, p. 1000). Si vedano anche i pensieri alle pp. 969, 995-997.

9 Si veda almeno il pensiero sui generi poetici (Zibaldone, 15 dicembre 1826, in Tutte le op. cit., II, p. 1124) in cui il primato della lirica è dichiarato soprattutto in quanto quella è «figlia legittima della natura».

10 Su questo punto della mancata via dialettica in Leopardi, il rammarico di Luporini è stato attaccato dal Timpanaro (Il pensiero del Leopardi in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano cit., pp. 180-182) che forse poteva sembrare di forzare – nella sua generosa passione leopardiana e nella sua posizione materialistica «classica» – la pur eccezionale portata storica della prospettiva leopardiana (e le istanze che ne risultano tuttora) in una dimensione di attualità troppo generalizzata e troppo fuori della sua risoluzione poetica. Certo la discussione era già estremamente sollecitante e prova comunque dell’interesse profondo che il Leopardi suscita nel «nostro» tempo. E piú recentemente il Timpanaro è ritornato, con argomenti ancor piú interessanti, a puntare sul materialismo leopardiano (nel suo libro Sul materialismo, Pisa, 1970) e ad inserirlo in una difesa del materialismo detto comunemente «volgare», di fronte al materialismo «storico-dialettico», che riporta Leopardi in una dimensione essenziale, e attuale entro lo stesso marxismo e le sue recenti interpretazioni. In tale prospettiva la posizione del materialismo leopardiano con le sue conclusioni di pessimismo sulla sorte biologica degli uomini viene ad assumere sempre piú un valore prepolitico piú che direttamente politico, garanzia indispensabile per una vera posizione di rinnovamento rivoluzionario. Su tale punto indubbiamente il Timpanaro ha portato luce e stimoli di grande importanza. Per quanto invece riguarda la poesia leopardiana mi pare che il Timpanaro sia rimasto sempre incerto fra la posizione mia (entro l’angolatura della quale egli pur dichiara esplicitamente di muoversi) e residui di posizioni derobertisiane, sicché, nella sua recensione al mio saggio del ’69 (in «Belfagor», 2, 1970), questo caro e validissimo compagno di lavoro finisce per postulare l’esistenza – di pari radicalità – di una componente eroica e di una componente idillica, collegate poi, in un tipo di genesi troppo diretta e semplice, l’una all’influenza dell’Alfieri e l’altra a quella del purismo.

11 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 719.

12 Zibaldone, 1-2 settembre 1823 (Tutte le op. cit., II, pp 829-834).

13 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 829).

14 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 830).

15 Zibaldone, 30 maggio 1823. (Tutte le op. cit., II. p. 691).

16 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 706).

17 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 846).

18 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 786).

19 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 862).

20 Zibaldone, 24 gennaio 1824 (Tutte le op. cit., II, p. 1034).

21 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 708).

22 Soprattutto in Zibaldone, 26 giugno 1821 (Tutte le op. cit., II, pp. 357-358).

23 Zibaldone, 24 luglio 1821 (Tutte le op. cit., II, p. 400).

24 Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 845).

25 È notevole a questo proposito anche un pensiero su Platone, che il Leopardi pur tanto combatteva in sede precisamente filosofica (anche in alcune lettere del ’24-25), come costruttore di un sistema metafisico a cui egli si rifiutava, ma che tuttavia lo interessava in quanto era stato insieme filosofo e poeta nei suoi dialoghi, che gli apparivano come un altissimo esempio dell’accordo di queste due facoltà: «Platone, il ... filosofo ... che ardí concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l’esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel suo stile, nelle sue invenzioni ec. cosí poeta come tutti sanno» (Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 812).